Enciclica: Fratelli tutti

 Capitolo sesto – Dialogo e amicizia sociale

198. Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti
di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda
abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che
cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite
famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti,
eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto.

Il dialogo sociale verso una nuova cultura

199. Alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con
violenza distruttiva, ma «tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre
possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la
capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo
costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura
giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia,
e la cultura dei media».

200. Spesso si confonde il dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni
nelle reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono
solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni
alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado
sono opportunistici e contraddittori.

201. La risonante diffusione di fatti e richiami nei media, in realtà chiude spesso le possibilità del
dialogo, perché permette che ciascuno, con la scusa degli errori altrui, mantenga intatti e senza
sfumature le idee, gli interessi e le scelte propri. Predomina l’abitudine di screditare rapidamente
l’avversario, attribuendogli epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui
si cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre. Il peggio è che questo linguaggio, consueto nel
contesto mediatico di una campagna politica, si è talmente generalizzato che lo usano
quotidianamente tutti. Il dibattito molte volte è manipolato da determinati interessi che hanno maggior
potere e cercano in maniera disonesta di piegare l’opinione pubblica a loro favore. Non mi riferisco
soltanto al governo di turno, perché tale potere manipolatore può essere economico, politico,
mediatico, religioso o di qualsiasi genere. A volte lo si giustifica o lo si scusa quando la sua dinamica
corrisponde ai propri interessi economici o ideologici, ma prima o poi si ritorce contro questi stessi
interessi.

202. La mancanza di dialogo comporta che nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune,
bensì di ottenere i vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio modo
di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il
potere e i maggiori vantaggi possibili, senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli eroi
del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere
con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi
stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società.

Costruire insieme

203. L’autentico dialogo sociale presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro,
accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua
identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione
perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. È vero che quando una persona o un gruppo è
coerente con quello che pensa, aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un pensiero, ciò
in un modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma questo avviene effettivamente solo nella
misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, «in un vero spirito
di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non
potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non
dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto
di lavorare e impegnarsi insieme». La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non
manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più
adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio. Impedisce che i vari settori si posizionino
comodi e autosufficienti nel loro modo di vedere le cose e nei loro interessi limitati. Pensiamo che
«le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso
dell’umanità».

204. Oggi esiste la convinzione che, oltre agli sviluppi scientifici specializzati, occorre la
comunicazione tra discipline, dal momento che la realtà è una, benché possa essere accostata da
diverse prospettive e con differenti metodologie. Non va trascurato il rischio che un progresso
scientifico venga considerato l’unico approccio possibile per comprendere un aspetto della vita, della
società e del mondo. Invece, un ricercatore che avanza fruttuosamente nella sua analisi ed è anche
disposto a riconoscere altre dimensioni della realtà che indaga, grazie al lavoro di altre scienze e altri
saperi si apre a conoscere la realtà in maniera più integra e piena.

205. In questo mondo globalizzato «i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli
altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e
all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Possono aiutarci in questo, particolarmente oggi,
quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet
può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un
dono di Dio».199 È però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione ci
orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla
vicinanza con gli ultimi, all’impegno di costruire il bene comune. Nello stesso tempo, come hanno
indicato i Vescovi dell’Australia, «non possiamo accettare un mondo digitale progettato per sfruttare
la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente».

Il fondamento dei consensi

206. Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il
fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento. Se in
definitiva «non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie
aspirazioni e delle necessità immediate, […] non possiamo pensare che i programmi politici o la forza
della legge basteranno. […] Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie
e come ostacoli da evitare».

207. È possibile prestare attenzione alla verità, cercare la verità che risponde alla nostra realtà più
profonda? Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di
riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile? Affinché una società abbia
futuro, è necessario che abbia maturato un sentito rispetto verso la verità della dignità umana, alla
quale ci sottomettiamo. Allora non ci si asterrà dall’uccidere qualcuno solo per evitare il disprezzo
sociale e il peso della legge, bensì per convinzione. È una verità irrinunciabile che riconosciamo con
la ragione e accettiamo con la coscienza. Una società è nobile e rispettabile anche perché coltiva la
ricerca della verità e per il suo attaccamento alle verità fondamentali.

208. Occorre esercitarsi a smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e
occultamento della verità negli ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la
comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che
stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza
umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che
erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la ragione scopre valori
che sono universali, perché da essa derivano.

209. Diversamente, non potrebbe forse succedere che i diritti umani fondamentali, oggi considerati
insormontabili, vengano negati dai potenti di turno, dopo aver ottenuto il “consenso” di una
popolazione addormentata e impaurita? E nemmeno sarebbe sufficiente un mero consenso tra i vari
popoli, ugualmente manipolabile. Già abbiamo in abbondanza prove di tutto il bene che siamo capaci
di compiere, però, al tempo stesso, dobbiamo riconoscere la capacità di distruzione che c’è in noi.
L’individualismo indifferente e spietato in cui siamo caduti, non è anche il risultato della pigrizia nel
ricercare i valori più alti, che vadano al di là dei bisogni momentanei? Al relativismo si somma il
rischio che il potente o il più abile riesca a imporre una presunta verità. Invece, «di fronte alle norme
morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il
padrone del mondo o l’ultimo “miserabile” sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti
alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».

210. Quello che oggi ci accade, trascinandoci in una logica perversa e vuota, è che si verifica
un’assimilazione dell’etica e della politica alla fisica. Non esistono il bene e il male in sé, ma
solamente un calcolo di vantaggi e svantaggi. Lo spostamento della ragione morale ha per
conseguenza che il diritto non può riferirsi a una concezione fondamentale di giustizia, ma piuttosto
diventa uno specchio delle idee dominanti. Entriamo qui in una degenerazione: un andare “livellando
verso il basso” mediante un consenso superficiale e compromissorio. Così, in definitiva, la logica
della forza trionfa.

Il consenso e la verità

211. In una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere
sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale. Parliamo di un dialogo che esige
di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti razionali, da varietà di prospettive, da apporti
di diversi saperi e punti di vista, e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad alcune
verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute. Accettare che ci sono alcuni
valori permanenti, benché non sia sempre facile riconoscerli, conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che
tali valori di base vanno al di là di ogni consenso, li riconosciamo come valori che trascendono i nostri
contesti e mai negoziabili. Potrà crescere la nostra comprensione del loro significato e della loro
importanza – e in questo senso il consenso è una realtà dinamica – ma in sé stessi sono apprezzati
come stabili per il loro significato intrinseco.

212. Se una certa cosa rimane sempre conveniente per il buon funzionamento della società, non è
forse perché dietro ad essa c’è una verità perenne, che l’intelligenza può cogliere? Nella realtà stessa
dell’essere umano e della società, nella loro natura intima, vi è una serie di strutture di base che
sostengono il loro sviluppo e la loro sopravvivenza. Da lì derivano determinate esigenze che si
possono scoprire grazie al dialogo, anche se non sono costruite in senso stretto dal consenso. Il fatto
che certe norme siano indispensabili per la vita sociale stessa è un indizio esterno di come esse siano
qualcosa di intrinsecamente buono. Di conseguenza, non è necessario contrapporre la convenienza
sociale, il consenso, e la realtà di una verità obiettiva. Tutt’e tre possono unirsi armoniosamente
quando, attraverso il dialogo, le persone hanno il coraggio di andare fino in fondo a una questione.

213. Se bisogna rispettare in ogni situazione la dignità degli altri, è perché noi non inventiamo o
supponiamo tale dignità, ma perché c’è effettivamente in essi un valore superiore rispetto alle cose
materiali e alle circostanze, che esige siano trattati in un altro modo. Che ogni essere umano possiede
una dignità inalienabile è una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi
cambiamento culturale. Perciò l’essere umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque
epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione o a non
agire di conseguenza. L’intelligenza può dunque scrutare nella realtà delle cose, attraverso la
riflessione, l’esperienza e il dialogo, per riconoscere in tale realtà che la trascende la base di certe
esigenze morali universali.

214. Agli agnostici, questo fondamento potrà sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile
validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove catastrofi.
Per i credenti, la natura umana, fonte di principi etici, è stata creata da Dio, il quale, in ultima istanza,
conferisce un fondamento solido a tali principi.203 Ciò non stabilisce un fissismo etico né apre la
strada all’imposizione di alcun sistema morale, dal momento che i principi morali fondamentali e
universalmente validi possono dar luogo a diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno
spazio per il dialogo.

Una nuova cultura

215. «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita».204 Tante volte ho invitato
a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro.
È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti
compongono un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte».205 Il poliedro
rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a
vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa,
nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro
punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono
le decisioni più determinanti.

L’incontro fatto cultura

216. La parola “cultura” indica qualcosa che è penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più
profonde e nel suo stile di vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di
un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di vivere che caratterizza
quel gruppo umano. Dunque, parlare di “cultura dell’incontro” significa che come popolo ci
appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che
coinvolga tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di vita. Il soggetto di tale cultura è il
popolo, non un settore della società che mira a tenere in pace il resto con mezzi professionali e
mediatici.

217. La pace sociale è laboriosa, artigianale. Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze
con un po’ di astuzia e di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il frutto di una
cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà diverse è molto più difficile e lento, eppure è
la garanzia di una pace reale e solida. Ciò non si ottiene mettendo insieme solo i puri, perché «persino
le persone che possono essere criticate per i loro errori hanno qualcosa da apportare che non deve
andare perduto».206 E nemmeno consiste in una pace che nasce mettendo a tacere le rivendicazioni
sociali o evitando che facciano troppo rumore, perché non è «un consenso a tavolino o un’effimera
pace per una minoranza felice».207 Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che
possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi
del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!

Il gusto di riconoscere l’altro

218. Questo implica la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere
diverso. A partire da tale riconoscimento fattosi cultura, si rende possibile dar vita ad un patto sociale.
Senza questo riconoscimento emergono modi sottili di far sì che l’altro perda ogni significato, che
diventi irrilevante, che non gli si riconosca alcun valore nella società. Dietro al rifiuto di certe forme
visibili di violenza, spesso si nasconde un’altra violenza più subdola: quella di coloro che disprezzano
il diverso, soprattutto quando le sue rivendicazioni danneggiano in qualche modo i loro interessi.

219. Quando una parte della società pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i
poveri non esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza e i diritti
degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza, molte volte inaspettata. I sogni della libertà,
dell’uguaglianza e della fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non sono
effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un incontro tra coloro che
detengono varie forme di potere economico, politico o accademico. Un incontro sociale reale pone in
un vero dialogo le grandi forme culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso
le buone proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano con una veste
culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi identificati. Di conseguenza, un patto
sociale realistico e inclusivo dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse
visioni del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.

220. Per esempio, i popoli originari non sono contro il progresso, anche se hanno un’idea di progresso
diversa, molte volte più umanistica di quella della cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una
cultura orientata al vantaggio di quanti hanno potere, di quanti hanno bisogno di creare una specie di
paradiso sulla terra. L’intolleranza e il disprezzo nei confronti delle culture popolari indigene è una vera forma di violenza, propria degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando gli altri. Ma nessun
cambiamento autentico, profondo e stabile è possibile se non si realizza a partire dalle diverse culture,
principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone che si rinunci a intendere l’identità di un
luogo in modo monolitico, ed esige che si rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di
integrazione sociale.

221. Questo patto richiede anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune.
Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa
pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La ricerca di una falsa tolleranza
deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi,
riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero
riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto dell’altro
per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi
interessi.

Recuperare la gentilezza

222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria
piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si
accentua e arriva a livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in momenti
difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è ancora possibile scegliere di
esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.

223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22),
che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La
persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile,
soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di
trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non
ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole
di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di
«parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano».

224. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà
che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto
a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene
gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona
gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare
un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta
indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince
le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né
un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si
fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere
e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge
tutti i ponti.

Capitolo settimo – Percorsi di un nuovo incontro

225. In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia.

Ricominciare dalla verità

226. Nuovo incontro non significa tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato. Inoltre, non c’è più spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti. La realtà è che «il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta». Come hanno affermato i Vescovi del Congo a proposito di un conflitto che si ripete, «gli accordi di pace sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano, includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo».

227. In effetti, «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi. […] Ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone. […] La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile».

L’architettura e l’artigianato della pace

228. Il percorso verso la pace non richiede di omogeneizzare la società, ma sicuramente ci permette di lavorare insieme. Può unire molti nel perseguire ricerche congiunte in cui tutti traggono profitto. Di fronte a un determinato obiettivo condiviso, si potranno offrire diverse proposte tecniche, varie esperienze, e lavorare per il bene comune. Occorre cercare di identificare bene i problemi che una società attraversa per accettare che esistano diversi modi di guardare le difficoltà e di risolverle. Il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver agito male. Infatti, «l’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé», promessa che lascia sempre uno spiraglio di speranza.

229. Come hanno insegnato i Vescovi del Sudafrica, la vera riconciliazione si raggiunge in maniera proattiva, «formando una nuova società basata sul servizio agli altri, più che sul desiderio di dominare; una società basata sul condividere con altri ciò che si possiede, più che sulla lotta egoistica di ciascuno per la maggior ricchezza possibile; una società in cui il valore di stare insieme come esseri umani è senz’altro più importante di qualsiasi gruppo minore, sia esso la famiglia, la nazione, l’etnia o la cultura». I Vescovi della Corea del Sud hanno segnalato che un’autentica pace «si può ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco».

230. L’impegno arduo per superare ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza. Infatti, «la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?».

231. Molte volte c’è un grande bisogno di negoziare e così sviluppare percorsi concreti per la pace. Tuttavia, i processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana. Le grandi trasformazioni non si costruiscono alla scrivania o nello studio. Dunque, «ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione». C’è una “architettura” della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un “artigianato” della pace che ci coinvolge tutti. A partire da diversi processi di pace che si sviluppano in vari luoghi del mondo, «abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. […] Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva».

232. Non c’è un punto finale nella costruzione della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di «un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune. Che questo sforzo ci faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e ricerca di interessi solo particolari e a breve termine». Le manifestazioni pubbliche violente, da una parte e dall’altra, non aiutano a trovare vie d’uscita. Soprattutto perché, come bene hanno osservato i Vescovi della Colombia, quando si incoraggiano «mobilitazioni cittadine, non sempre risultano chiari le loro origini e i loro obiettivi, ci sono alcune forme di manipolazione politica e si riscontrano appropriazioni a favore di interessi particolari».

Soprattutto con gli ultimi

233. La promozione dell’amicizia sociale implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo di qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. La pace «non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione».

234. Spesso gli ultimi della società sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste. Se talvolta i più poveri e gli scartati reagiscono con atteggiamenti che sembrano antisociali, è importante capire che in molti casi tali reazioni dipendono da una storia di disprezzo e di mancata inclusione sociale. Come hanno insegnato i Vescovi latinoamericani, «solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi, i loro legittimi aneliti e il loro specifico modo di vivere la fede. L’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i poveri».

235. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. In effetti, «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità».222 Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi.

Il valore e il significato del perdono

236. Alcuni preferiscono non parlare di riconciliazione, perché ritengono che il conflitto, la violenza
e le fratture fanno parte del funzionamento normale di una società. Di fatto, in qualunque gruppo
umano ci sono lotte di potere più o meno sottili tra vari settori. Altri sostengono che ammettere il
perdono equivale a cedere il proprio spazio perché altri dominino la situazione. Perciò ritengono che
sia meglio mantenere un gioco di potere che permetta di sostenere un equilibrio di forze tra i diversi
gruppi. Altri credono che la riconciliazione sia una cosa da deboli, che non sono capaci di un dialogo fino in fondo e perciò scelgono di sfuggire ai problemi nascondendo le ingiustizie: incapaci di
affrontare i problemi, preferiscono una pace apparente.

Il conflitto inevitabile

237. Il perdono e la riconciliazione sono temi di grande rilievo nel cristianesimo e, con varie modalità,
in altre religioni. Il rischio sta nel non comprendere adeguatamente le convinzioni dei credenti e
presentarle in modo tale che finiscano per alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure,
dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza.

238. Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli stesso condannava
apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi sapete che i governanti delle nazioni
dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26). D’altra parte, il
Vangelo chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) e fa l’esempio del servo spietato, che
era stato perdonato ma a sua volta non è stato capace di perdonare gli altri (cfr Mt 18,23-35).

239. Se leggiamo altri testi del Nuovo Testamento, possiamo notare che di fatto le prime comunità,
immerse in un mondo pagano colmo di corruzione e di aberrazioni, vivevano un senso di pazienza,
tolleranza, comprensione. Alcuni testi sono molto chiari al riguardo: si invita a riprendere gli
avversari con dolcezza (cfr 2 Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare male di nessuno, di evitare le
liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo
insensati» (Tt 3,2-3). Il libro degli Atti degli Apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune
autorità, “godevano il favore di tutto il popolo” (cfr 2,47; 4,21.33; 5,13).

240. Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono, sulla pace e sulla concordia sociale, ci imbattiamo in
un’espressione di Cristo che ci sorprende: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra;
sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la
figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt
10,34-36). È importante situarla nel contesto del capitolo in cui è inserita. Lì è chiaro che il tema di
cui si tratta è quello della fedeltà alla propria scelta, senza vergogna, benché ciò procuri contrarietà,
e anche se le persone care si oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non invitano a cercare
conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto inevitabile, perché il rispetto umano non porti a
venir meno alla fedeltà in ossequio a una presunta pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha
affermato che la Chiesa «non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la
Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono
inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e
coerenza».

Le lotte legittime e il perdono

241. Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a
un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza
eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure
fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari
modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come
essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e
altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con
forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data,
una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi
vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi
danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla
questa necessità bensì la richiede.

242. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima
del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette.
Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera. La verità è che
«nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il
motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci
d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi,
per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali».224 Così non si guadagna
nulla e alla lunga si perde tutto.

243. Certo, «non è un compito facile quello di superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e
diffidenze lasciata dal conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene (cfr Rm
12,21) e coltivando quelle virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la pace».225 In tal
modo, «a chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia profonda
anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è
debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta».226 Occorre riconoscere nella propria
vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non
curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto
dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio».

Il vero superamento

244. Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono
silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera
riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il
dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si astenga
dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione,
fondata nella ricerca della giustizia».

245. Più volte ho proposto «un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità
è superiore al conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno
nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle
polarità in contrasto».229 Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo
a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno
reciproci si trasformano […] in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero
potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova
vita».

La memoria

246. Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono
sociale”. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società,
anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione
libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e
la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una
“riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con
un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È commovente vedere
la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure
umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il
dimenticare.

247. La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando,
fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita
rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa».231 Nel
ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia.
Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di
questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal
fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai più!».232

248. Non vanno dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. Ancora una volta
«faccio memoria qui di tutte le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di coloro che,
essendo sopravvissuti a quei primi momenti, hanno sopportato nei propri corpi per molti anni le
sofferenze più acute e, nelle loro menti, i germi della morte che hanno continuato a consumare la loro
energia vitale. […] Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria
di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e
fraterno». E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici
che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di
essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci.

249. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo
e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si
cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere «la fiamma della
coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde», che
«risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi
sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione». Ne hanno bisogno le vittime stesse – persone, gruppi sociali o nazioni – per non cedere alla logica che porta a giustificare la rappresaglia e ogni violenza in nome del grande male subito. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene.

Perdono senza dimenticanze

250. Il perdono non implica il dimenticare. Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato, relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che mai dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che per nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo perdonare. Il perdono libero e sincero è una grandezza che riflette l’immensità del perdono divino. Se il perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è incapace di chiedere perdono.

251. Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione. Decidono di non continuare a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere ancora una volta su loro stessi. Infatti, la vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione delle vittime. Ci sono crimini così orrendi e crudeli, che far soffrire chi li ha commessi non serve per sentire che si è riparato il delitto; e nemmeno basterebbe uccidere il criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili a ciò che ha potuto soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla.

252. Neppure stiamo parlando di impunità. Ma la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira. Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare.

253. Quando vi sono state ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle strutture e del potere dello Stato non sta allo stesso livello della violenza di gruppi particolari. In ogni caso, non si può pretendere che vengano ricordate solamente le sofferenze ingiuste di una sola delle parti. Come hanno insegnato i Vescovi della Croazia, «noi dobbiamo ad ogni vittima innocente il medesimo rispetto. Non vi possono essere differenze etniche, confessionali, nazionali o politiche».

254. Chiedo a Dio «di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace».

La guerra e la pena di morte

255. Ci sono due situazioni estreme che possono arrivare a presentarsi come soluzioni in circostanze particolarmente drammatiche, senza avvisare che sono false risposte, che non risolvono i problemi che pretendono di superare e che in definitiva non fanno che aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto della società nazionale e mondiale. Si tratta della guerra e della pena di morte.

L’ingiustizia della guerra

256. «L’inganno è nel cuore di chi trama il male, la gioia invece è di chi promuove la pace» (Pr 12,20). Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso «si nutre del pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo». La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti.

257. Poiché si stanno creando nuovamente le condizioni per la proliferazione di guerre, ricordo che «la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale». Voglio rilevare che i 75 anni delle Nazioni Unite e l’esperienza dei primi 20 anni di questo millennio mostrano che la piena applicazione delle norme internazionali è realmente efficace, e che il loro mancato adempimento è nocivo. La Carta delle Nazioni Unite, rispettata e applicata con trasparenza e sincerità, è un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e un veicolo di pace. Ma ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale.

258. È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale». Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare». La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!

259. È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale.

260. Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra.

261. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.

262. Neppure le norme saranno sufficienti, se si pensa che la soluzione ai problemi attuali consista nel dissuadere gli altri mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi nucleari, chimiche o biologiche. Infatti, «se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. […] Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. […] In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario. […] La crescente interdipendenza e la globalizzazione significano che qualunque risposta diamo alla minaccia delle armi nucleari, essa debba essere collettiva e concertata, basata sulla fiducia reciproca. Quest’ultima può essere costruita solo attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi velati o particolari». E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa.

La pena di morte

263. C’è un altro modo di eliminare l’altro, non destinato ai Paesi ma alle persone. È la pena di morte. San Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale. Non è possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo.

264. Nel Nuovo Testamento, mentre si chiede ai singoli di non farsi giustizia da sé stessi (cfr Rm 12,17.19), si riconosce la necessità che le autorità impongano pene a coloro che fanno il male (cfr Rm 13,4; 1 Pt 2,14). In effetti, «la vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata». Ciò comporta che l’autorità pubblica legittima possa e debba «comminare pene proporzionate alla gravità dei delitti» e che garantisca al potere giudiziario «l’indipendenza necessaria nell’ambito della legge».

265. Fin dai primi secoli della Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale. Ad esempio, Lattanzio sosteneva che «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà un crimine uccidere un uomo». Papa Nicola I esortava: «Sforzatevi di liberare dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli». In occasione del giudizio contro alcuni omicidi che avevano assassinato dei sacerdoti, Sant’Agostino chiese al giudice di non togliere la vita agli assassini, e lo giustificava in questo modo: «Non che vogliamo con ciò impedire che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla loro insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o che, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile. Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento? […] Sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità; non sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi la volontà a curarne le ferite».

266. Le paure e i rancori facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale. Oggi, «tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. […] C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste». Ciò ha reso particolarmente rischiosa l’abitudine sempre più presente in alcuni Paesi di ricorrere a carcerazioni preventive, a reclusioni senza giudizio e specialmente alla pena di morte.

267. Desidero sottolineare che «è impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone». Particolare gravità rivestono le cosiddette esecuzioni extragiudiziarie o extralegali, che «sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionato della forza per far applicare la legge».

268. «Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. […] L’ergastolo è una pena di morte nascosta».

269. Ricordiamo che «neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante». Il fermo rifiuto della pena di morte mostra fino a che punto è possibile riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al peggiore dei criminali, non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità di condividere con me questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.

270. I cristiani che dubitano e si sentono tentati di cedere a qualsiasi forma di violenza, li invito a ricordare l’annuncio del libro di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri» (2,4). Per noi questa profezia prende carne in Gesù Cristo, che di fronte a un discepolo eccitato dalla violenza disse con fermezza: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52). Era un’eco di quell’antico ammonimento: «Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso» (Gen 9,5-6). Questa reazione di Gesù, che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza dei secoli e giunge fino a oggi come un costante richiamo.

Capitolo ottavo – Le religioni al servizio della fraternità nel mondo

271. Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza. Come hanno insegnato i Vescovi dell’India, «l’obiettivo del dialogo è stabilire amicizia, pace, armonia e condividere valori ed esperienze morali e spirituali in uno spirito di verità e amore».

Il fondamento ultimo

272. Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità».

273. In questa prospettiva, desidero ricordare un testo memorabile: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. […] La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza».

274. A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli. Crediamo che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali».

275. Va riconosciuto come «tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti». Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce soltanto i potenti e gli scienziati. Dev’esserci uno spazio per la riflessione che procede da uno sfondo religioso che raccoglie secoli di esperienza e di sapienza. «I testi religiosi classici possono offrire un significato destinato a tutte le epoche, posseggono una forza motivante», ma di fatto «vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi».

276. Per queste ragioni, benché la Chiesa rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione all’ambito del privato. Al contrario, «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali» che possano fecondare tutta la vita sociale. È vero che i ministri religiosi non devono fare politica partitica, propria dei laici, però nemmeno possono rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza che implica una costante attenzione al bene comune e la preoccupazione per lo sviluppo umano integrale. La Chiesa «ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione» ma che si adopera per la «promozione dell’uomo e della fraternità universale». Non aspira a competere per poteri terreni, bensì ad offrirsi come «una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare […] al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre». E come Maria, la Madre di Gesù, «vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione».

L’identità cristiana

277. La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle altre religioni, e «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna». Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti».

278. Chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra – questo significa “cattolica” –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale. Infatti, «tutto ciò ch’è umano ci riguarda. […] Dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro». Per molti cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome Maria. Ella ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e la sua attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al «resto della sua discendenza» (Ap 12,17). Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia e la pace.

279. Come cristiani chiediamo che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza. C’è un diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità e della pace: è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni. Tale libertà manifesta che possiamo «trovare un buon accordo tra culture e religioni differenti; testimonia che le cose che abbiamo in comune sono così tante e importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio».

280. Nello stesso tempo, chiediamo a Dio di rafforzare l’unità nella Chiesa, unità arricchita da diversità che si riconciliano per l’azione dello Spirito Santo. Infatti «siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13), dove ciascuno dà il suo apporto peculiare. Come diceva Sant’Agostino, «l’orecchio vede attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio». È urgente inoltre continuare a dare testimonianza di un cammino di incontro tra le diverse confessioni cristiane. Non possiamo dimenticare il desiderio espresso da Gesù: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ascoltando il suo invito, riconosciamo con dolore che al processo di globalizzazione manca ancora il contributo profetico e spirituale dell’unità tra tutti i cristiani. Ciò nonostante, «pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità».

Religione e violenza

281. Tra le religioni è possibile un cammino di pace. Il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché «Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore. E l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese!».

282. Anche «i credenti hanno bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo». Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni.

283. Il culto a Dio, sincero e umile, «porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti».280 In realtà, «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Pertanto, «il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni».281 Le convinzioni religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di «riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio».

284. Talvolta la violenza fondamentalista viene scatenata in alcuni gruppi di qualsiasi religione dall’imprudenza dei loro leader. Tuttavia, «il comandamento della pace è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. […] Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo le vie del dialogo e non innalzando nuovi muri!».

Appello

285. In quell’incontro fraterno, che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, «dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini […]. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Perciò desidero riprendere qui l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità che abbiamo fatto insieme:

«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace. In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante. In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna. In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa. In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede. In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra. In nome di Dio e di tutto questo, […] [dichiariamo] di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».

286. In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld.

287. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese». Voleva essere, in definitiva, «il fratello universale». Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen.

Preghiera al Creatore

Signore e Padre dell’umanità,
che hai creato tutti gli esseri umani con la stessa dignità,
infondi nei nostri cuori uno spirito fraterno.
Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Stimolaci a creare società più sane e un mondo più degno,
senza fame, senza povertà, senza violenza, senza guerre.
Il nostro cuore si apra
a tutti i popoli e le nazioni della terra,
per riconoscere il bene e la bellezza
che hai seminato in ciascuno di essi,
per stringere legami di unità, di progetti comuni,
di speranze condivise. Amen.

Preghiera cristiana ecumenica

Dio nostro, Trinità d’amore,
dalla potente comunione della tua intimità divina
effondi in mezzo a noi il fiume dell’amore fraterno.
Donaci l’amore che traspariva nei gesti di Gesù,
nella sua famiglia di Nazaret e nella prima comunità cristiana.
Concedi a noi cristiani di vivere il Vangelo
e di riconoscere Cristo in ogni essere umano,
per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati
e dei dimenticati di questo mondo
e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi.
Vieni, Spirito Santo! Mostraci la tua bellezza
riflessa in tutti i popoli della terra,
per scoprire che tutti sono importanti,
che tutti sono necessari, che sono volti differenti
della stessa umanità amata da Dio. Amen.

Dato ad Assisi, presso la tomba di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della Festa del
Poverello, dell’anno 2020, ottavo del mio Pontificato

Francesco

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